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don Giovanni Del MisserSi è concluso giovedì 27 marzo il primo percorso di riflessione sulla morale proposto dall'associazione Piccola Accademia e dall'Unità Pastorale di Cormòns. Questo primo percorso aveva come argomento la Vita. La redazione Web&Voce dell'Unità Pastorale di Cormòns ha voluto intervistare su questo argomento il prof. don Giovanni Del Misser. Presbitero dell’Arcidiocesi di Udine, è professore straordinario di Teologia morale presso l’ISSR “mons. Alfredo Battisti” – Udine, del quale è anche direttore; docente invitato presso l’Istituto Teologico Interdiocesano di Gorizia, Trieste e Udine, la Facoltà Teologica del Triveneto e l’Accademia Alfonsiana di Roma.

Come mai nasce la Bioetica?

La Bioetica come disciplina autonoma nasce intorno al 1970, come risposta alla ormai chiara percezione di una “rottura” consumatasi nel rapporto tra natura e tecnologia, e ciò con particolare riferimento alle scienze della vita. Nuove sorprendenti scoperte scientifiche e ampie violazioni dei diritti umani fondamentali in nome di un preteso “bene della scienza”, insieme alla crisi ecologica che minacciava la sopravvivenza del pianeta, avevano fatto maturare la consapevolezza che fosse ormai indispensabile ripensare criticamente le potenzialità manipolative sulla vita e la salute offerte dalla tecno-scienza per orientarle al vero bene dell’umanità.

Dunque uno scontro tra natura e cultura: alla fine chi ha vinto?

Anche se i dibattiti televisivi ci hanno abituato alle accese contrapposizioni, la realtà un po’ più complessa della fiction. Non si tratta semplicemente di scegliere una a scapito dell’altra, ma piuttosto di armonizzarle in modo sensato. L’essere umano da sempre ha cercato di intervenire culturalmente sulla natura, perché questa è la sua prerogativa peculiare: si potrebbe dire che la sua natura è la cultura e la tecnica cioè l’intervento sulla natura! Bisogna però orientare l’agire umano perché faccia fiorire le potenzialità della natura e accresca il bene dell’umanità; diversamente l’operazione avrà un esito “suicida” per l’intera biosfera. Questa è la posta in gioco della Bioetica.

La vita, dunque, ha un valore sacro, assoluto e intangibile?

Come insegna Evangelium Vitae la vita umana è un bene fondamentale: difenderla, promuoverla e rispettarla significa riconoscere il valore unico e insostituibile della persona. Ma la tradizione cristiana non considera la vita come un assoluto, un bene supremo al quale tutto si può sacrificare; infatti conosce situazioni in cui possono prevalere beni superiori alla vita stessa, come la professione della fede (nel caso dei martiri) o la carità (nel sacrificio di sé per il bene altrui). Oppure situazioni in cui si riconosce irragionevole profondere sforzi eccessivi per mantenere in vita a tutti i costi una persona, come nel caso dell’accanimento terapeutico o della cure straordinarie.

Ma allora l’opposizione sacralità della vita e qualità della vita non è così radicale come spesso appare nei media!?

Anche questa contrapposizione risponde alla logica semplicistica del riduzionismo delle posizioni. Attribuire alla tradizione cattolica un ottuso fissismo su posizioni sacrali di difesa del bios a tutti i costi significa non riconoscere la ricchezza e la fecondità di una riflessione etica bimillenaria che non può esaurirsi in una battuta. Possiamo sinteticamente dire così: la vita umana ha un valore immenso, ma è affidata dal Creatore stesso alle nostre mani, alla nostra responsabilità, per essere custodita. I nostri interventi su di essa sono moralmente buoni quando si ispirano all’agire stesso di Dio che opera con sapienza e amore. Quando l’essere umano agisce in questa direzione realizza pienamente la sua libertà.

Questa prospettiva, però, appare distante dalla mentalità efficentista contemporanea…

L’efficienza è un valore utile, ma anch’essa non è un assoluto, soprattutto quando si parla di esseri umani. In questo delicato campo l’efficientismo produce l’individualismo esasperato e la mentalità dello scarto denunciati da papa Francesco: chi non è produttivo viene emarginato! Occorre un profondo cambio di mentalità che ci aiuti a tenere conto della fragilità umana come di una dimensione che tutti ci accomuna, in ogni istante della nostra esistenza, anche se emerge soprattutto in certi momenti, di solito all’inizio e alla fine. Per diventare umani dobbiamo prenderci cura della fragilità, nostra e altrui; solo così il mondo diventa abitabile e la società vivibile. È la lezione del Buon Samaritano: la lezione della com-passione e della prossimità solidale

Ma è proponibile in un’epoca in cui anche i rapporti personali sono improntati allo logica dello scambio commerciale?

È la sfida che il Vangelo lancia a ciascuno di noi; è la sfida della nostra piena umanizzazione che si rivela nella vicenda di Gesù di Nazaret. Egli interpreta se stesso e ogni relazione all’interno della logica del dono e non dello scambio; in cambio della debolezza e dell’ingiustizia ci “ripaga” con il dono sovrabbondante e immeritato della misericordia, offrendoci tutto se stesso, donandoci la sua figliolanza divina. Improntare i rapporti umani a questa logica è trasformare la realtà secondo il “sogno di Dio”: questo è il compito della comunità cristiana che vive nel mondo e di tale testimonianza fa parte anche la cura della vita umana più debole e minacciata.

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