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Don Colmegna, la cura, e il chi ce lo fa fare

Don Colmegna a CormònslibriAl festival di Cormons libri abbiamo incontrato don Virgilio Colmegna, che con don Pierluigi Di Piazza del centro Balducci di Zuliano, è intervenuto sui temi della solidarietà e accoglienza per i quali ha lavorato a vari livelli tra Caritas, Fulci, Agenzia di solidarietà per il lavoro, coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza.

Impegnato nella promozione di questi temi, oggi si dedica a tempo pieno alla Casa della Carità “Angelo Ambriani” fondata nel 2004 a Milano e che dirige come presidente. La casa persegue finalità sociali e culturali e ospita più di trecento persone, garantisce tutela giuridica, assistenza medica e psichiatrica, ascolto e accompagnamento all’inserimento lavorativo, accesso a docce e guardaroba e a una biblioteca.

Don Di Piazza ha presentato don Colmegna come “maestro e compagno di viaggio”, che grazie al suo impegno in ambito sociale, ha ricevuto nel 2011 la Laurea Magistrale Honoris Causa in Scienze Pedagogiche da parte dell’Università degli Studi di Milano –Bicocca.

“Quale è la forza, l’ispirazione la motivazione dello stare dentro all’accoglienza in modo disponibile e gratuito?” è stata la domanda formulata da don Di Piazza.

Il grande dono che io vivo l’ho descritto in “Ora et Labora. La chiesa che vivo”, un libro che scrissi prima dell’arrivo di Papa Francesco, prima di sapere che il primo viaggio apostolico del Papa sarebbe stato a Lampedusa.

Quello che sta succedendo è che i poveri ci chiedono non una ONG ma un messaggio culturale, ci sfidano a cambiare, non relegandoli in un problema di ordine pubblico o controllo sociale, lasciando vincere la cultura della distanza. Non sono semplicemente della gente che va aiutata ma come nel “Magistero dei poveri” di Francesco, sono un luogo dove ognuno di noi deve riconoscere se stesso come persona, comunità, società e vedere l’esclusione sociale come condanna che nasce con il nostro essere uomini e donne di questo tempo.

Nel dono a me fatto dal Cardinal Martini della Casa Carità, dove vivo tra accoglienze facili e accoglienze complesse, cerchiamo di ricostruire un clima relazionale.

Queste situazioni di fragilità, di sofferenza, che fanno intravedere l’ingiustizia, sono un grande dono che dobbiamo condividere. Oggi c’è un odioso assistenzialismo e i poveri divengono marketing o cavie dei nostri esperimenti di bontà. Ormai è tutto mercato e gli ultimi vengono usati per commuovere per poi tornare nell’indifferenza, invece la parola condivisione indica legami, appartenenza.

Quando Martini mi chiese di fondare Casa Carità perché voleva un luogo non ecclesiastico, scelse una ex scuola abbandonata e la consegnò alla città non nel capitolo “Milano e i poveri” ma in “Uno sguardo sulla città”, per rilanciare l’intuizione che per ricostruire cittadinanza, serenità, capacità di stare insieme, bisogna far diventare l’esperienza dell’ospitalità esperienza di cultura, cambiamento sociale, sapienza della Carità. Al mio dubitare sull’uso della parola carità, lui disse che era giunto il momento di ripulire questo termine “perché Carità è piena di giustizia”; come per don Milani “la carità senza giustizia è una truffa” che la spinge anche là dove non c’è utilità sociale.

La grande lezione di Martini è di ”non dividere mai tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti” e per cui contemplazione significa inquietudine anche nel modo di credere: “per credere bisogna far parlare il non credente che è in noi”.

Quando ho ricevuto la laurea honoris causa, la mia lectio magistralis la feci sulla pedagogia del “chi ce lo fa fare”: questa motivazione che viene dal profondo e che non riconosciamo nemmeno, se non nel fatto che ci è insopportabile che persone vivano in termini di tragedia, è insopportabile il non ascoltare e non condividere. A volte l’aiuto dato è solo esterno e non tocca l’interiorità e invece riaprirsi e riflettere porta al dialogo.

Quando la Casa fu aperta, la gente del quartiere raccolse le firme perché non voleva averci lì; ora è un grande luogo di condivisione, la biblioteca ha duemila abbonati, abbiamo fondato l’Orchestra dei popoli e venti bambini rom frequentano il conservatorio. Altro consenso è nato da quando apriamo la nostra realtà agli anziani, apriamo a un messaggio di prossimità per guardare in faccia l’altro, permettendoci di sorprenderci positivamente. Abbiamo rovesciato le prospettive, mettendoci in paziente ascolto delle situazioni, imparando la vita, riaprendola anche in termini culturali attraverso il rapporto con le Università.

Grandi conquiste che con il fondamento della gratuità voluto da Martini, si porta dentro il senso del limite e a volte del fallimento: per ora il nostro bilancio economico è in rosso.

Così questa estate è passata nel lavoro per il rilancio sulla città perché la Casa carità sopravvivesse. Con il tema “Regaliamoci speranza”, cantanti, musicisti, intellettuali e la comunità musulmana, hanno risposto positivamente alla richiesta di collaborare per rimettersi in gioco in eventi e aperture all’incontro e il momento di depressione si è trasformato in rimando di cittadinanza con fiducia nel tentativo di eliminare l’esclusione sociale, rancori, rabbia e fatica del dialogo.

Fiducia nel rimettere in circolo anche la possibilità di futuro perché come insegnava Balducci -“Siate ragionevoli, chiedete l’impossibile!”-.

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